YOU EYES TELL – CAPITOLO 1

Bangkok

La prima volta che vidi Bangkok ne rimasi sconvolto. Il caos della città, visto attraverso i finestrini del taxi, mi aveva più che spaventato. Motorini, macchine e tuk tuk sfrecciavano in ordine sparso, invadendo le strade e congestionando del tutto il traffico.

Io, la Thailandia non la conoscevo affatto, ero stato adottato a due anni da una coppia di italiani e dal giorno in cui mi avevano portato via con loro, non ero più tornato.  

Quello che mi aveva fatto decidere di approdare a Bangkok nel periodo afoso fu l’assoluto desiderio di capire, ma soprattutto di conoscere, una parte di me che non avevo mai vissuto. Per questo un anno dopo la fine delle superiori, dopo aver compiuto vent’anni, avevo fatto domanda per entrare alla facoltà di Arte e comunicazione all’università Chulangkorn di Bangkok. Il piano era quello di ottenere una stanza nel campus e cercare di capire se nella mia terra d’origine potessi sentirmi meno fuori posto.

Sapevo poco e niente degli usi e costumi del posto, sapevo quel che bastava grazie agli articoli online, ai libri e al corso di lingua che avevo iniziato all’età di dieci anni. Per il resto, ammetto che dal vivo con un altro Thailandese non avevo mai parlato.

Sceso dal taxi, e dopo un’ora di viaggio con l’aria condizionata, l’unica cosa che riuscivo a sentire era il caldo umido che come una sciabolata in faccia mi aveva accolto. Bangkok, ore 13,30 di un fine febbraio qualunque, c’erano 34 gradi, ma se ne percepivano molti di più. Iniziavo a capire come mai tutti gli attori nei film che avevo visto sudassero senza ritegno mentre recitavano. 

Avevo scelto di partire a fine febbraio per due semplici motivi: avrei avuto due mesi prima di iniziare l’università e questo mi avrebbe aiutato a prendere dimestichezza con la lingua, ma, soprattutto, avrei avuto modo di abituarmi al cambiamento. 

All’età di 12 anni, in seguito a diversi episodi a cui non sapevo dare un nome, mi era stato diagnosticato il disturbo ossessivo aggressivo; tra i vari psicologi e psichiatri, dopo anni di costanti terapie mi ero convinto che potevo farcela, che stavo veramente meglio. In ogni caso una volta salito sull’aereo la prima cosa che avevo fatto era stata quella di prendere 26 gocce di xanax e stordirmi per qualche ora. 

Non era banale parlare di questo problema, quando aggiungevi la parola aggressivo al fondo di ‘disturbo ossessivo’ tutti credevano che tu fossi un violento, in realtà ogni cosa avveniva nella tua testa e tu, povero stronzo, riuscivi soltanto a farti venire un enorme attacco di panico. Per questo una parte del viaggio, lo avevo passato nel bagno dell’aereo. 

Era naturale che mi sentissi stanco, a metà tra il sonno causato dal sonnifero e la tachicardia da attacco di panico non ancora concluso sul serio, volevo veramente tornarmene a casa. 

Quello che devi fare in questi frangenti è andare avanti, prendi tutto il malloppo di ansia, tremori, voglia di morire e continua a fare quello che devi. Lo giuro, era quello che avevo fatto quel giorno. 

«Mark, giusto? Ti stavo aspettando.» Quindi presi coraggio o, come diceva mia madre, ‘presi le palle in mano’,  cercai di resistere il più possibile all’istinto di voltarmi e scappare via, allargando semplicemente un sorriso. 

«Oh si, si, sono io.» 

«La tua stanza è al terzo piano della palazzina B, camera 205. Queste sono le chiavi e queste sono le istruzioni. Per qualsiasi problema i numeri di telefono sono segnati sul foglio.» La ragazza che probabilmente aveva qualche anno più di me mi parlò con una dolce sorriso. Era carina, ma io ero dentro quel tunnel fatto di ansia che non mi permetteva notare minimamente la cosa. 

Una volta arrivato in stanza, dopo aver portato le mie cose dentro ed aver acceso la luce, la prima cosa che ero riuscito a fare era stata quella di sedermi a terra e lasciarmi andare a quella che veniva definita iperventilazione. Sdraiato sul pavimento, cercavo di regolarizzare il respiro e focalizzarmi sul fatto che non c’era nulla che mi potesse fare male, che avrei potuto chiedere sempre un aiuto e che la scelta che avevo fatto, quella di trasferirmi a 9000 km da casa, era giusta. ERA GIUSTA.

Le ore sembrano non passare mai quando stai male, soprattutto perchè per una volta avevo deciso di non chiamare i miei in preda ad uno dei miei attacchi, volevo gestirlo da solo. Volevo che non si preoccupassero, che avessero l’illusione che per una volta ce l’avevo fatta senza l‘aiuto di nessuno. Per questo dopo un’ora passata a rantolare per terra, tra un conato di vomito e l’altro, mi alzai per esplorare la stanza che mi era stata assegnata. 

Mi avevano dato un monolocale dotato di cucina a vista, un letto ad una piazza e mezza ed un tavolo che poteva essere usato sia come scrivania, sia per mangiare. Il bagno mi sembrava strano, dovevo farmi la doccia seduto sul gabinetto ed ovviamente del bidet non c’era traccia. Ma alla fine mi dissi che «paese che vai, usanze che trovi«. Mi ero comunque attrezzato per la sera, ero deciso a non mettere il naso fuori da lì, dovevo cercare di calmarmi e, dopo una notte di probabile insonnia, iniziare a vivere fuori da quelle quattro mura.

Chi diavolo era mai andato così lontano dalla propria casa? Per quanto avessero una fisionomia affine alla mia, mi sentivo un completo estraneo. 

Avevo deciso di prendere altro sonnifero, ma quando soffri di quello di cui soffro io la prima paranoia che ti fai è che potresti restarci secco, lontano da casa e senza poter salutare nessuno. Vivere nella mente di una persona come me era davvero difficile, me ne rendevo conto ogni volta ma non sapevo come spegnerla sul serio.

Alle undici di sera l’ansia era talmente forte che preso da un raptus non ben definito e che non avevo mai sperimentato, mi alzai dal letto ed uscii dalla stanza. 

Accaldato, agitato e probabilmente neanche troppo lucido finii per accoccolarmi seduto contro il muro del palazzo, fuori del giardino del campus. Accesa una sigaretta, fumavo nervosamente mentre continuavo a darmi coraggio ad alta voce, parlando in italiano. 

«Adesso ti calmi, non ti succede niente. Qui è pieno di gente, qualcuno ti aiuterò. Dai cazzo!»

Credo sia stato in quel momento che la mia vita cambiò drasticamente e per sempre. Il punto era che ancora non lo sapevo. Lo avrei capito più avanti, decisamente più avanti. 

«Ehi, stai bene?» 

Non che fossi madrelingua thailandese ma dopo anni potevo dire di conoscerlo bene. Una voce maschile mi prese alla sprovvista e alzando la testa vidi che  davanti a me c’era un ragazzo in pantaloncini, maglietta e infradito. Lo osservai, non riuscii a dire una mezza parola. Non per una qualsivoglia bellezza devastante ma perché ero appena arrivato e già qualcuno mi aveva beccato nel momento più vulnerabile di tutti. 

«Stai bene? Ti serve aiuto?» 

Aveva una bella voce, era alto e a prima vista sembrava un ragazzo atletico. La carnagione più scura, tipica thailandese, gli occhi anch’essi scuri e le labbra carnose. La sua espressione mostrava una certa preoccupazione. Mi passai velocemente una mano sul viso sudato e come, un grillo, balzai in piedi. Cercai di sorridere o almeno di non sembrare un pazzo qualsiasi. Volevo almeno sembrare un pazzo con un certo stile. 

«Si, si certo. E’ solo il caldo.» 

In questi frangenti, la prima cazzata che ti viene in mente devi dirla quindi, non avevo voluto deludere certe aspettative. Lui continuava ad osservarmi, io nel mentre me ne stavo in piedi, decisamente sudato ed effettivamente accaldato mentre mi passavo una mano tremante sul viso per cercare di darmi un tono. Che tono però? Con ogni probabilità sembravo uno sull’orlo di un collasso a causa di una crisi di nervi. 

«A me invece sembra più tu abbia un attacco di panico in corso.» 

Ok e tu chi cazzo sei? Un veggente? Erano tutti pensieri a cui non sapevo dare forma, restavano incastrati nella mia testa come la maggior parte di tutto quello che volevo dire nella mia vita. Un eterno insuccesso. Quella frase mi rese ancora più teso, tant’è che invece di calmarmi iniziai a battermi una mano sul petto e a cercare aria altrove. Non sapevo chi fosse questo ragazzo ma in un minuto scarso aveva già toccato la corda più sensibile di tutte, quella di cui mi vergognavo particolarmente. La cosa buffa era che non aveva nessuna intenzione di lasciare la presa. 

«Guardami e respira. Non ti succede niente e non sei da solo. Mi chiamo Seng, abito qui anche io, sono uno studente di medicina, stai tranquillo.» 

«Respira un cazzo, non ti avvicinare.» Normalmente ero sempre stato quel tipo di persona estremamente gentile. Era difficile che insultassi qualcuno, che rispondessi male, che non facessi un favore ad un amico. Mi ero sempre sentito il prototipo di persona buona e di buon cuore senza capire che forse avevo solo paura di essere me stesso. «Scusa .. scusa. Mark, sono Mark.» Tra un affanno e l’altro non ero riuscito a fare lo stronzo neanche in piena crisi. In ogni caso dovevo scusarmi con uno sconosciuto, tirarmi indietro e chiudermi a riccio per mostrare quello che non ero. 

«Piacere Mark e non preoccuparti, dimmi solo il numero della tua stanza, ti accompagno.» 

«Eh?»

Mentre continuavo a massaggiarmi una guancia credendo di avere una paralisi, aprivo e chiudevo i pugni perchè non sentivo più il mio corpo a causa della tensione, questo ragazzo che ad uno sguardo più attento mi resi conto fosse più alto di me di almeni dieci centimetri, mi prese delicatamente la mano con cui strofinavo la guancia in modo compulsivo. Per qualche istante avevo avuto l’istinto di spingerlo via ed in effetti avevo fatto resistenza, ma continuava a guardarmi senza dire niente, cercava di invitarmi a fidarmi e lasciarmi afferrare. Mi girò semplicemente il palmo della mano ed iniziò a fare pressione al centro, più volte ed in modo costante. 

«Si chiama digitopressione, tu respira e vedrai che a breve ti passerà.»

Ero veramente restio ed allo stesso tempo anche veramente agitato. Forse per questo avevo ascoltato quello che aveva detto e dopo tre minuti, quella morsa alla bocca dello stomaco iniziò a scomparire. Un poco alla volta e senza eccessiva fretta, più respiravo lentamente, più lui mi premeva il palmo della mano e più io lo guardavo in volto. 

Sul serio, chi cazzo sei?

Mi ero accorto che aveva un’aria più thailandese della mia, probabilmente perché all’epoca ancora non sapevo di avere origini cinesi come molti della popolazione, soprattutto mi guardava con un sorriso sincero, per niente spaventato. Non ero mai stato bravo a leggere gli occhi delle persone, anzi ricordo che ad una mia ex fidanzata avevo detto testuali parole: «non riesco a capire quando la gente dice di vedere tutto negli occhi di una persona perché credimi, io non ci vedo mai niente«.

Quella frase mi era talmente rimasta dentro che io nei suoi occhi, non ci avevo visto assolutamente nulla. L’unica cosa che avevo capito era che avevo smesso di credere di morire, avevo smesso di avere un serie di pensieri non miei dentro la mia testa ed ero totalmente focalizzato sulla persona che avevo davanti. 

Se n’era accorto, perché dopo qualche altra pressione aveva lasciato la presa sulla mia mano allargando un sorriso. Ed io quel sorriso in modo inconscio lo avevo trovato bellissimo. 

«Credo che adesso vada meglio. In che stanza sei? Ti accompagno.» 

«Non c’è bisogno, posso andare da solo. Però grazie ancora.» 

Se c’era una parte di me che voleva farsi accompagnare in camera quel giorno non lo avevo capito. Lo avrei maturato anni dopo, ripensando al giorno in cui ci eravamo conosciuti per la prima volta. Ricordando il suo sorriso ed i suoi occhi scuri. 

Quella sera però lo avevo semplicemente salutato ed ero corso via come una saetta per rifugiarmi in camera mia. Uno come me, con una testa così, in certi frangenti non aveva le facoltà mentali per rielaborare nulla. L’unica cosa che mi era successa era che una volta tornato in stanza ero riuscito a dormire e che quel sorriso lo avevo sognato in modo inaspettato. 

Seng, ma chi cazzo sei? 

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Loredana

Sono felicissima di poter rileggere questa bellissima storia. Mi aveva presa subito già la prima volta.
Grazie mille per averla ripresa😍😘❤

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