HOUSE OF SWEETS – CAPITOLO I

Anche quella notte sognò di nuovo di colpire qualcuno.

Aveva afferrato il suo amante per il colletto e lo aveva colpito senza pietà in faccia. C’era un’altra copia di se stesso che lo supplicava di smettere. Perché le sue mani facevano male alla persona che amava?

Le nuvole grigie stagnanti nella sua testa iniziarono a turbinare come una tempesta che minacciò di spazzarle via molto, molto lontano. 

Qualcuno mi fermi. Fermatemi. Fermatemi.

A quel punto si svegliava sempre. Fu sollevato dal fatto che fosse un sogno, ma rimase lì a fissarsi le mani nella stanza buia. Era solo un sogno, eppure le sue mani bruciavano a causa di una sensazione pulsante che veniva solo dopo aver colpito qualcuno. Ma era un sogno. Era il passato. Non lo avrebbe rifatto.

Kase Hiroaki fece un breve respiro e guardò il cielo. Quel cielo di inizio giugno era piacevolmente azzurro per la stagione delle piogge, ed era abbastanza per deprimere le persone che cercavano un lavoro in una giornata così bella.

Sarebbe stata la terza volta che visitava l’ufficio Hello Work*, ma non importa quante volte ci sarebbe andato, non si sarebbe mai abituato. Poteva illustrare loro il suo background accademico e la sua esperienza lavorativa e descrivere le aziende per cui voleva lavorare, erano tutte cose che andavano bene, ma poi lottava con l’atteggiamento positivo che era costretto ad adottare per la ricerca del lavoro. Aveva la volontà di lavorare, non era abbastanza? La necessità di avere un atteggiamento positivo non si applicava solo alla ricerca di un lavoro. Era quasi eccessivo come oggigiorno la società nel suo insieme richiedesse un atteggiamento positivo per tutto.

[*N/T: è un ufficio in cui ti aiutano a cercare lavoro.]

Anche se qualcosa lo angosciava, doveva fingere di essere allegro, doveva apparire qualcuno che poteva dire “Mi riprendo velocemente”. Doveva essere di plastica, doveva solo appuntare il distintivo che diceva “Pensatore positivo”, come fosse un’etichetta con il nome, dove le persone potevano vederlo. Essere sensibili non era un vantaggio. Le persone che non potevano cantare nel coro e danzare al giusto ritmo venivano gettate nella scatola etichettata “Perdenti”. 

Con tutti questi pensieri che gli attraversavano la testa, Kase si sentiva come se fosse già stato condannato prima ancora di arrivare all’ufficio di collocamento. Sperava solo di trovare una persona del personale ragionevole. Fu allora che un profumo nell’aria fermò Kase sui suoi passi.

Il profumo del pane appena sfornato che aleggiava nell’aria usciva da una panetteria, la sua vetrina era interamente di vetro.

Il nome del panificio era dipinto in bianco sul vetro: “un petit nid”. Probabilmente era francese, ma Kase non era in grado di leggerlo.

Pasticcini e pane tutti dorati erano allineati in file all’interno del negozio. Le giovani madri con i bambini aggrappati alle loro gonne portavano dei vassoi mentre selezionavano i prodotti da forno.

Era una scena dolce e piacevole, che si addiceva al profumo del pane fresco.

Kase inconsciamente fece un passo indietro. Si ritirava sempre ogni volta che vedeva qualcosa che gli era estraneo. Voleva andarsene subito, ma i suoi occhi si fermarono al cartello affisso accanto al nome del negozio. Diceva che erano in cerca di nuove assunzioni.

Anche se fosse andato all’ufficio Hello Work, sapeva che non sarebbe stato in grado di trovare subito un nuovo lavoro. Nel frattempo avrebbe dovuto trovare un lavoro part-time, ma servire i clienti era probabilmente impossibile per uno come lui senza abilità sociali.

Era ancora lì a guardare la vetrina quando notò, dietro al bancone, un uomo dall’aria dura che sembrava fuori posto per una panetteria. Era estremamente alto e sembrava avere circa trentacinque anni.

I lineamenti dell’uomo erano troppo taglienti per definirli raffinati, i suoi lunghi capelli sciolti all’indietro gli conferivano un aspetto ruvido e selvaggio. Era vestito come un cameriere con un grembiule da uomo e probabilmente lavorava per il negozio, ma se avesse indossato un completo, probabilmente sarebbe potuto passare per membro della yakuza. Aveva quel tipo di aria dura che aleggiava intorno a lui.

Mentre Kase lo fissava stordito, l’uomo si avvicinò a lui. I loro occhi si incontrarono attraverso il vetro e l’uomo sostenne il suo sguardo per alcuni secondi prima di alzare una mano verso di lui, un saluto che sembrava dire “Ehi”.

Per un momento, Kase si chiese se conosceva l’uomo, ma non poteva essere quindi interruppe freneticamente il contatto visivo. Quando si voltò per andarsene, sentì il suono della porta che si apriva dietro di lui e il debole tintinnio di un campanello.

«Oi, aspetta un secondo.»

La voce era profonda e ruvida, più adatta ad alcol e sigarette che a pane e pasticcini. Voleva lamentarsi con lui di qualcosa? Kase si voltò con apprensione e vide l’uomo lì.

«Ecco, entra per un po’.»

L’uomo si appoggiò alla porta semiaperta e indicò all’interno col mento. Il pacifico di quartiere ora sembrava più un ufficio della yakuza, e Kase socchiuse gli occhi con sospetto.

«Non preoccuparti, non sto litigando con te. Entra per ora.»

L’uomo gli fece un sorriso. Gli angoli dei suoi occhi si incresparono e lo fecero sembrare buono e gentile. Fece un cenno con la mano a Kase, come se stesse chiamando un gatto, ma questo rimase lì a fissare l’uomo.

«Cosa vuoi?» borbottò.

Kase non era alto come l’uomo, ma la sua altezza era comunque di quasi 180 centimetri. Aveva problemi di vista, cosa che gli faceva socchiudere gli occhi e intimidire inavvertitamente gli altri. Non andava bene per lavorare in un’azienda, ma questo suo aspetto sinistro era utile per strada per spaventare le persone.

«Sei come un gatto randagio, eh.»

Invece di battere ciglio, il sorriso dell’uomo si fece più profondo. Accorciò la distanza tra loro in un istante con i suoi lunghi passi.

«Dai, vieni dentro.»

L’uomo improvvisamente gli afferrò il braccio e Kase cercò di scrollarselo di dosso, ma la presa dell’uomo era troppo forte. I suoi muscoli erano evidenti anche sotto i vestiti e Kase fu essenzialmente trascinato nel negozio dietro di lui.

«Aspetta qui.»

Kase non poteva vederlo dal davanti, ma c’era una piccola sala da pranzo nascosta nel retro della panetteria. L’uomo indicò uno dei tavoli vuoti e si ritirò nella zona cucina.

La sala sembrava essere collocata sul lato sud dell’edificio e la luce del sole filtrava attraverso una grande finestra fissa da uno stretto giardino simile a un vicolo. Il design naturale del luogo con il suo arredamento in legno era molto dissonante rispetto all’immagine dell’uomo. Kase non sapeva cosa l’uomo volesse da lui, ma non aveva l’obbligo di aspettarlo lì.

«Ehi, non andartene.» gridò la voce.

Kase aveva cercato di dirigersi verso la porta, ma voltò la testa indietro con un sussulto. L’uomo uscí dalla cucina con un vassoio in mano, si diresse verso il tavolo e indicò la sedia col mento. Kase si sedette con riluttanza. L’uomo mise il vassoio con un caffè e una ciambella davanti a Kase e si sedette di fronte a lui.

«Guarda…» L’uomo si fermò prima di continuare parlare a bassa voce. «Sto cercando un assistente in cucina. E quando siamo occupati, avrò bisogno anche che mi aiuti nella parte anteriore. La paga è di 800 yen all’ora. Va fino a 1.000 yen all’ora per le prime ore dalle 4 alle 8. Ti formeremo, quindi non avrai bisogno di sapere nulla di pane.»

L’uomo chiese: «Domande?» e Kase sbatté le palpebre. Stava dicendo che lo avrebbe assunto? L’uomo aveva avuto un’idea sbagliata perché stava guardando il cartello per l’assunzione? Ma le cose non si muovevano troppo velocemente? Kase non fu in grado di dire nulla subito, e apparve ancora più minaccioso mentre si guardava in giro per orientarsi.

«Caffè.» L’uomo indicò la tazza con la mano. «Serviti pure.»

Tuttavia, Kase non si sentiva a suo agio a mangiare o bere di fronte a estranei. L’uomo rise allegramente mentre guardava Kase irrigidirsi davanti a lui.

«Quanti anni hai?»

L’uomo si appoggiò allo schienale della sedia e accavallò pigramente le lunghe gambe. Tirò fuori le sigarette dal grembiule e ne accese una per fumare. Il gesto non era adatto alla panetteria, ma all’uomo si.

Kase sentì il suono della carta che bruciava e si accigliò. Odiava le sigarette, soprattutto la punta che brillava arancione mentre bruciava. Provava paura per le volte in cui lui gli si era avvicinato lentamente. Adesso era un adulto: anche se sapeva che non c’era più nessuno che glielo avrebbe fatto, il ricordo a volte lo rendeva ansioso, ed era troppo doloroso per lui da sopportare.

«Immagino che tu abbia circa 25 anni, giusto?» chiese l’uomo mentre Kase taceva.

Il fumo della sigaretta galleggiava e ondeggiava nella luce del sole pomeridiano.

«28.»

«Hmm, sembri più giovane.» L’uomo guardò Kase con interesse. «Mi ricordi un moccioso nella sua fase ribelle. Qualcuno ti ha detto che i tuoi occhi sembrano minacciosi?»

L’uomo si accarezzò la barba incolta sul mento con la mano che reggeva la sigaretta e rise divertito. Kase non aveva mai incontrato nessuno che potesse parlare in modo così schietto con uno sconosciuto, e si sentì disarmato.

«Se stai cercando lavoro, sarà praticamente impossibile essere assunto in un’azienda con quei tuoi occhi.»

«Sono stato un impiegato fino alla scorsa settimana…» rispose Kase in un sussurro e con gli occhi abbassati.

«E allora questa settimana? Sei stato licenziato o qualcosa del genere?»

Kase lanciò un’occhiataccia all’uomo che, invece, alzò le labbra in un sorriso.

«I tuoi occhi sembrano spaventosi, ma sei il tipo che non sa mentire, eh? Per me va bene.»

Kase distolse lo sguardo sbuffando. Quella era la terza volta che era stato licenziato.

Crolli negli affari. Riduzione del personale. Questo era il mondo in cui viveva e non poteva farci niente. Ed era sempre il primo a essere licenziato ogni volta che accadeva. Era colpa sua perché non sapeva dire nulla per gratificare i suoi capi, anche se sapeva qual era il problema, non poteva risolverlo. Veniva mandato in un’altra compagnia per essere la loro prossima pedina, anche se non aveva sistemato nulla, solo per essere buttato via quando la fine sarebbe arrivata di nuovo. Il processo si era ripetuto più volte nel corso del suo impiego.

«Beh, penso che dovrebbe funzionare. Quando puoi iniziare? Il nostro assistente ha lasciato improvvisamente la scorsa settimana e abbiamo davvero bisogno di aiuto. Vorrei che iniziassi il prima possibile. Anche domani sarebbe fantastico se ti andasse bene.» L’uomo caricò la conversazione, ma Kase si sentì lasciato indietro e perplesso.

«Se hai dubbi sulla paga o sull’orario di lavoro, possiamo discuterne. O c’è qualcosa che ti dà fastidio?»

«Qualcosa che…» Kase ripeté le parole dell’uomo senza pensare. C’era qualcosa di più basilare di una discussione sulle condizioni di lavoro.

«Che cosa? Dillo tranquillamente. Non so se posso accontentarti, ma dire qualcosa non costa nulla, quindi non trattenerti.»

«C-che mi dici del… mio curriculum?»

L’uomo si accigliò con aria annoiata.

«Che cosa? Ti piace scrivere curriculum o qualcosa del genere?»

Ovviamente no. Se ci fosse qualcuno a cui piaceva scrivere curriculum, avrebbe davvero voluto incontrarlo.

«Se vuoi portarne uno va bene, ma non saprei cosa pensare della tua scuola o esperienza lavorativa. Possiedo questo posto e sono libero di assumere chi voglio. Fino a quando mi sono simpatici, non ho bisogno di altro.» L’uomo si interruppe per un momento e guardò negli occhi Kase. «Ti ho preso in simpatia e quindi voglio assumerti.»

Kase aggrottò le sopracciglia di riflesso.

Mi hai preso in simpatia? A me?

Non aveva alcuna abilità sociale e i suoi occhi sembravano minacciosi. Poteva sentire come le conversazioni diventavano fastidiose anche quando le persone cercavano di parlargli normalmente. Fondamentalmente trasformava tutto intorno a lui in qualcosa di cupo. Uno dei suoi capi glielo aveva pure detto. Allora cosa apprezzava di lui quest’uomo? Mentre rifletteva sulla domanda, il campanello della porta tintinnò.

Era un cliente e l’uomo gridò: «Benvenuto.» e si alzò in piedi.

L’uomo si voltò di nuovo verso di lui e gli chiese: «Quando puoi iniziare?» ma Kase non poteva rispondere alla domanda. «Allora, puoi venire la prossima settimana. Qui, lunedì alle 4 del mattino.»

L’uomo andò alla cassa dopo avergli dato la data di inizio. Kase fissò il suo caffè intatto, non era sicuro di cosa fosse successo esattamente. Era completamente confuso, ma si sentiva sollevato di aver trovato un lavoro part-time senza alcuno sforzo. I colloqui erano una miseria che andava oltre una debolezza per lui. Anche se fosse riuscito a forzare un sorriso sul suo volto, c’era una probabilità del 70% che la sua domanda fosse respinta. Era inevitabile che alla gente non piacesse, ma anche se lo capiva, faceva comunque male essere giudicato e chiaramente lui non ne poteva più.

Kase sorseggiò il caffè ormai tiepido. In ogni caso, aveva bisogno di un lavoro part-time finché non ne avesse trovato uno più stabile. Il proprietario era un po’ strano, ma quel posto era un normale panificio. La sua posizione sarebbe stata quella di un assistente in cucina e non avrebbe dovuto costringersi a sorridere alle persone.

Forse dovrei accettare.

Kase finì il caffè e si alzò in piedi. Andò alla cassa proprio mentre il cliente stava uscendo. Il campanello della porta tintinnò di nuovo quando si aprì e si richiuse.

«Grazie per questo.»

Kase restituì il vassoio all’uomo. Aveva finito il caffè, ma non aveva toccato la ciambella. L’uomo posizionò il vassoio sul bancone e usò un paio di pinze per trasferire la ciambella in un sacchetto di carta.

«Portala con te.» disse l’uomo, porgendoglielo.

Non gli piacevano i dolci, ma Kase li accettava comunque.

«Quindi ci vediamo lunedì prossimo alle 4 del mattino.»

Kase annuì e il telefono alla cassa squillò.

L’uomo rispose al telefono. «Ciao, unpity knee*.»

[*N/T: unpity knee = un petit nid, è francese e significa “un piccolo nido”.]

Kase pensava che fosse una specie di incantesimo, ma poi si rese conto che era il nome del panificio. L’uomo gestì la telefonata alzando una mano in segno di ringraziamento. Kase fece un leggero inchino e lasciò il negozio.

Camminò con il sacchetto di carta in mano e si rese conto di non aver nemmeno detto il suo nome all’uomo. Andava davvero bene? Kase divenne insicuro della sua decisione e tornò a guardare il panificio. La luce del sole si rifletteva sui vetri mentre lui era in strada.

Il francese scritto in bianco sul vetro: un petit nid.

All’improvviso Kase si chiese cosa significasse.

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